Massacro delle colonie valdesi in Italia meridionale (1561-1563)

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Porta del Sangue a Guardia Piemontese

(Cosenza)

Uno degli episodi più truculenti della storia della Riforma in Italia nel XVI secolo fu il massacro delle colonie valdesi in Calabria e la conversione forzata al Cattolicesimo di quelle in Puglia. Si trattava di colonie antiche ben stabilite sul territorio fin dal XIII/XIV secolo e provenienti dalle valli piemontesi.

Calabria

In Calabria si considera tradizionalmente come prima colonia valdese quella di Montalto Uffugo (in provincia di Cosenza), di cui si hanno notizie dal 1386, in seguito i valdesi si installarono a San Sisto, a Guardia Piemontese (ai tempi La Guardia o Guardia dei Valdi), e nei paesini dei dintorni. Mantennero, come si direbbe oggigiorno, un basso profilo, non facendo proselitismo, commentando la Bibbia solo in case private, ricevendo visite molto discrete dei barba (i ministri di culto) e perfino partecipando ai riti esteriori delle chiese cattoliche locali. I feudatari del luogo li impiegavano come contadini e artigiani della lana e della pelle e li apprezzavano per la loro operosità e mitezza.

Tuttavia le cose cambiarono nel XVI secolo con l'avvento della Riforma: già dal 1532, ai tempi del sinodo di Chanforan (in valle d'Angrogna), queste colonie valdesi cominciarono a manifestare un vivo interesse nella Riforma calvinista, ma fu solo dal 1556 che i valdesi di Calabria vollero aderire alla Riforma, in seguito alle prediche di Gilles de Gilles (che profeticamente li aveva esortati ad emigrare per la loro stessa incolumità), ma soprattutto quando, nel 1559, Giacomo Bonello (m. 1560) e Gian Luigi Pascale (m. 1560), con l'aiuto del barba locale Stefano Negrin (m. 1561), iniziarono una coraggiosa azione di evangelizzazione.

Purtroppo per loro il papa Paolo IV (1555-1559) (l'ex inquisitore Giovanni Pietro Carafa), e l'Inquisitore Generale Michele Ghisleri [il futuro papa Pio V (1566-1572)] erano rigorosissimi contro ogni forma di eresia e di dissenso religioso: in particolare una bolla papale emanata nello stesso 1559, che non concedeva l'assoluzione a chi era a conoscenza di attività ereticali e non li aveva prontamente denunciati, tolse ai valdesi calabri l'appoggio, o perlomeno, la neutralità dei signori locali.

In particolare la minaccia di detta bolla fece rompere gli indugi al feudatario Salvatore Spinelli, che ordinò l'arresto di Gian Luigi Pascale a Fuscaldo il 2 maggio 1559: per questa azione Spinelli ottenne in seguito il titolo di marchese. Pascale fu condotto a Cosenza, da qui a piedi a Napoli, ed infine a Roma per cercare inutilmente di farlo abiurare, ma anche un estremo tentativo di suo fratello Bartolomeo, cattolico, fu vano: Pascale fu impiccato e poi bruciato a Ponte Sant'Angelo il 16 settembre 1560.

La stessa tremenda sorte era capitata al confratello Giacomo Bonello, che, dopo un primo arresto a Battipaglia, ne aveva subito un secondo decisivo a Messina. Dopo un breve processo, Bonello fu arso vivo in Piazza dell'Ucciardone a Palermo il 18 febbraio 1560.

Senza il conforto dei loro pastori, i valdesi calabri caddero preda degli inquisitori domenicani Valerio Malvicino e Alfonso Urbino, che, dopo aver condotto un'inchiesta nelle colonie di Montalto, San Sisto e Guardia, vennero alla conclusione che erano tutti eretici e che quindi dovevano o abiurare o morire.

Ma anche quelli che abiuravano erano costretti a sopportare un severo e umiliante regime di controllo: non potevano parlare in occitano o sposarsi tra loro, dovevano andare a messa tutti i giorni, osservare l'obbligo del digiuno settimanale e indossare l'infamante abitello degli eretici. I valdesi reagirono con la fuga nei boschi circostanti, ma questo diede il pretesto a Don Parafan de Ribera, Duca di Alcalà e viceré di Napoli (viceré: 1559-1572) di organizzare, nel giugno 1561, una colossale caccia all'uomo, usando cani mastini, assoldando veri pendagli da forca come soldati e mettendo taglie sulle teste dei valdesi fuggiti.

Fu la "San Bartolomeo italiana" (secondo le parole dello storico Salvatore Caponetto): 60 persone furono ucciso a San Sisto ed il paese, che contava 6000 abitanti, distrutto, mentre a Montalto, l'11 giugno 1561, fu atrocemente tagliata la gola, uno dopo l'altro, a 88 valdesi, che furono lasciati dissanguare come agnelli sgozzati: i loro cadaveri furono poi impalati, come monito, sulla strada per Cosenza.

Ma la strage più impressionante avvenne a Guardia Piemontese: dal 3 giugno 1561 (per circa undici giorni) si calcola che 2000 persone furono barbaramente trucidate e che un altro centinaio di valdesi furono uccisi nelle campagne circostanti. Il sangue di quei poveri innocenti colò lungo i vicoli fino alla porta principale del paese e alla piazza antistante, denominate, in seguito, "Porta del sangue" e "Piazza della strage". Altri 1600 coloni furono fatti prigionieri, tra cui 700 provenienti da Guardia stessa: il barba Stefano Negrin morì nel carcere di Cosenza, o per le torture subite o di fame. Alcuni valdesi riuscirono a fuggire in Sicilia, ma qui furono coinvolti in processi tra il 1569 ed il 1582 e giustiziati.

Solo pochi riuscirono a raggiungere un rifugio sicuro a Ginevra e a rifarsi una vita.

Puglia

In Puglia alcune colonie franco-provenzali (presumibilmente valdesi) si erano insediate intorno al 1440 nella zona della Capitanata, tra Foggia e Benevento, nei comuni di Montaguto, La Motta, Celle San Vito, Faeto, ed in seguito (nel 1517) a Volturara, chiamate dal feudatario locale. Qui adottarono per prudenza un atteggiamento fortemente nicodemitica, frequentando le funzioni religiose cattoliche, ma nel 1561, durante la campagna militare conclusosi con la tremenda strage dei loro confratelli calabri, venne scoperto il legame religioso che li univa a quest'ultimi.

Dopo un primo intervento in zona dell'inquisitore domenicano Valerio Malvicino, fresco dell'esperienza calabrese, che fece arrestare parecchi valdesi ed internarli nelle carceri romane (molti di loro morirono per le torture inflitte), nel 1563 l'Inquisizione romana decise di optare per una linea più morbida, mandando in zona i gesuiti, al comando di padre Cristoforo Rodriguez.

Quest'ultimo, spesso in forte contrasto con l'Inquisitore Generale Michele Ghisleri, decise di cercare di convincere i valdesi ad abiurare senza minacce o torture, ma solamente interrogandoli anche più volte di seguito, finché 1500 coloni accettarono di farsi convertire: un peso determinante comunque lo ebbe la decisione di Rodriguez di far liberare i valdesi prigionieri nelle carceri romane e di rimandarli a casa.

Inoltre, nel novembre 1565, egli ottenne il permesso di far levare l'abitello a coloro che avevano abiurato, pur con l'obbligo di indossarlo in chiesa , mentre l'obbligo del digiuno settimanale diveniva mensile. Tuttavia, solo nel 1592 vennero abrogate molte restrizioni, come l'obbligo di portare l'abitello in chiesa e dei matrimoni solo con persone di lingua italiana.

Pur scomparendo la differenza religiosa grazie alle massicce conversioni, rimase comunque l'orgoglio di usare la lingua franco-provenzale, abitudine tramandata fino ai giorni nostri e che fa dei paesi di Faeto e Celle San Vito (come, del resto, anche di Guardia Piemontese in Calabria per quanto riguarda la lingua occitana) un'isola etnica, protetta dall'apposita legge italiana 482/1999 sulle minoranze linguistiche.