Donato di Numidia (ca.270 - ca.355) e donatismo

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Rovine di Cartagine

 

Durante o dopo le grandi persecuzioni del III e IV secolo, la Chiesa Cristiana si era spesso interrogata sull'atteggiamento da tenere nei confronti di coloro che, per vari motivi, si erano sottratti al martirio, tortura o imprigionamento, facendo apostasia, cioè rinnegando la propria fede, ma che, passata la tempesta, avevano domandato di essere riammessi nella Chiesa.

In latino, costoro venivano chiamati lapsi, cioè caduti e si dividevano in:

  • Libellatici, che si erano procurati documenti falsi, che attestavano che essi avevano sacrificato agli dei romani.
  • Sacrificati, che avevano veramente sacrificato agli dei.
  • Turificati, che avevano bruciato l'incenso agli dei.
  • Traditores, che avevano consegnato le Sacre Scritture alle autorità romane.

La corrente degli intransigenti, come Novaziano intorno al 250 e Melezio di Licopoli intorno al 305, era per la linea dura: nessun perdono né per i lapsi né per coloro che avevano commesso peccati mortali.

La posizione ufficiale della Chiesa, ribadita nel Concilio di Elvira del 305, era invece orientata, con alcune distinzioni, ad una nuova accoglienza previa penitenza, come era stato suggerito nel 250 da Cipriano, vescovo di Cartagine. Ironia della sorte però, fu proprio Cipriano ad introdurre il tema, che diede il via, circa 60 anni più tardi, allo scisma donatista, e cioè se i sacramenti amministrati da un sacerdote, reo di essere stato un apostata, erano considerati validi o meno.

Nel 311, morì il vescovo di Cartagine, Mensurio e al suo posto fu eletto il suo diacono, Ceciliano. Il problema era che ambedue i prelati erano stati dei traditores durante le persecuzioni di Diocleziano e quindi contro questa nomina si ribellò un gruppo di 70 vescovi con a capo il vescovo di Numidia , Donato, nato a Casae Nigrae (Case Nere) nel 270 ca., e soprannominato "il Grande" per la sua notevole capacità di eloquenza.

D. e gli altri vescovi nominarono vescovo di Cartagine, il prete Maggiorino, parente della nobile Lucilia, gran protettrice del neonato movimento. Maggiorino morì pochi mesi più tardi e gli successe D. stesso, che diede il nome di donatisti ai seguaci di questo scisma. Al di là delle questioni religiose, questo movimento riuniva una miscela esplosiva di nazionalismo punico (cioè della zona attualmente corrispondente alla Tunisia e alla Libia), ostilità verso Roma e volontà di rivalsa delle classi più deboli.

Nel 313, l'imperatore Costantino (306-337) prese posizione a favore di Ceciliano in due lettere scritte al suo proconsole Anulino, ma a questa decisione i donatisti si opposero con una tale forza che, volendo dirimere la questione cartaginese, Costantino fece convocare un concilio a Roma, dal 2 al 4 Ottobre 313 in domo Faustae in Laterano, cioè nel Palazzo del Laterano, futura sede del Papa. Il concilio, presieduto dal Papa Milziade, condannò D. e confermò come vescovo Ceciliano, tuttavia, al rientro di D., in patria si scatenarono le reazioni dei suoi sostenitori. Costantino convocò allora, nel 314, un altro concilio ad Arles in Francia, e qui vennero riconfermate le decisioni del concilio di Roma e in più si condannò l'usanza donatista di ribattezzare i peccatori.

A questo punto, tra il 317 ed il 321, si scatenò la repressione imperiale e si cercò con la forza di sopprimere il movimento, espropriando le chiese donatiste e mandandone in esilio i capi. Ci furono anche diversi morti, ma anche la reazione dei donatisti non si fece attendere. In particolare scesero in campo i circoncellioni o agonisti, vero e proprio braccio armato (sebbene spesso solo di bastoni) del movimento donatista. Dal 321 Costantino, scoraggiato dal fatto che le misure intraprese non avevano portato alla pace sperata, lasciò una relativa libertà di coscienza e di culto al movimento, anche perché alle prese con una minaccia ben più grave all'unità della Chiesa Cristiana: l'arianesimo.

Dopo qualche anno, il nuovo imperatore Costanzo II (337-361), ansioso, come il padre, di pacificare l'Africa, mandò, nel 347, due commissari, Paolo e Macario, con larghe somme di denaro per "convincere" alcuni influenti donatisti a tornare in seno alla Chiesa cattolica. L'azione fu considerata un vero e proprio affronto da parte di D., ma i disordini che ne seguirono furono il pretesto per una dura repressione da parte degli imperiali: D. stesso fu mandato in esilio dove morì, di morte naturale, nel 355.

A D. subentrò, come successore, Parmeniano, riorganizzatore del movimento e vendicatore nel 362, durante il regno dell'imperatore Giuliano l'Apostata (361-363), delle persecuzioni subite dai donatisti: ci furono i soliti massacri questa volta a carico dei cristiani ortodossi. Nuovo cambio di rotta con gli imperatori Valentiniano I (364-375) nel 373, e Graziano (375-383) nel 377, che ordinarono la restituzione dei beni ai Cattolici. Ma il segreto della sconfitta donatista fu l'intervento di due teologi: Sant'Ottato (Optato) di Milevi (l'odierna Mila, in Algeria) (m. ca. 385), autore di De schismate Donatistarum e soprattutto Sant'Agostino (354-430), il "martello dei donatisti": quest'ultimo, diventato vescovo di Ippona (oggi in Algeria) nel 395, si impegnò a combattere contro i donatisti per parecchi decenni. Agostino fu il trionfatore della disputa di Cartagine del 411 (un dibattito tra cattolici e donatisti) e domandò pubblicamente che il potere dello stato venisse usato contro i donatisti.

Questo fu la prima volta nella storia del Cristianesimo che il potere politico interveniva a difesa del potere religioso per reprimere un'eresia.

Il successivo decreto dell'imperatore Onorio del 412 condannò i donatisti, confiscò le loro proprietà e mandò in esilio i suoi vescovi, dando un colpo mortale al movimento. A questo si aggiunse nel 429 l'invasione del province romane del Nord Africa da parte dei Vandali. Tuttavia alcune frange di donatismo resistettero fino all'invasione araba e alla conquista di Cartagine da parte delle truppe dell'Islam nel 698. Il movimento fu quindi definitivamente assorbito dall'islamismo, di cui influenzò il concetto di martirio per fede religiosa.