Paleario, Aonio (1503-1570)

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Medaglione raffigurante Aonio Paleario, da S. Caponetto: Aonio Paleario (1503-1570) e la Riforma protestante in Toscana,

per gentile concessione della Claudiana editrice

I primi anni

Il famoso umanista d'estrazione erasminiana, Aonio Paleario (o Paleari), nome umanistico di Antonio della Paglia (o Pagliara), nacque a Veroli, in provincia di Frosinone, nel 1503, dall'agiato artigiano salernitano Matteo della Pagliara e da Clara Jannarilli. Da giovane P. compì studi classici con il notaio Giovanni Martelli, iscrivendosi successivamente, grazie alla protezione del vescovo di Veroli, Ennio Filonardi (1466-1549), ai corsi di filosofia e di lettere antiche ed eloquenza all'università di Roma, ma non poté completare gli studi, perché abbandonò, nel 1529, la città pontificia, devastata dal sacco del 1527 a causa dei Lanzichenecchi.

Vagò allora attraverso l'Italia, fermandosi a Perugia e qui rincontrò il suo protettore Filonardi, che, quando era stato nunzio apostolico a Costanza, aveva conosciuto Erasmo da Rotterdam, idolo letterario e riferimento religioso per P. In seguito, nel 1534, P. avrebbe scritto una lettera al grande umanista olandese per chiedergli di convincere i teologi tedeschi riformatori a presenziare al concilio (in realtà il famoso Concilio di Trento, dopo ripetuti rinvii, iniziò i propri lavori solamente nel 1545), convocato, appena dopo la sua elezione, da Papa Paolo III (1534-1549).

P. a Padova

Nel periodo 1530-31 P. si recò a Siena, e infine a Padova, dove visse dal 1531 al 1536 (eccetto un periodo a Bologna nel 1533) e completò gli studi, laureandosi ed entrando nell'ambiente letterario, che gravitava attorno al Cardinale Pietro Bembo.

Qui P. completò la stesura del suo primo lavoro di successo: il poema filosofico, di ispirazione neoplatonica, De animorum immortalitate, dedicato all'imperatore Ferdinando d'Asburgo e accompagnato da una lettera per Pier Paolo Vergerio, ambasciatore pontificio presso l'imperatore. L'opera, tuttavia, non aggiunse niente di nuovo al dibattito accademico, accesosi dopo la condanna del noto trattato di Pietro Pomponazzi, il Tractus de immortalitate animae, dove l'umanista mantovano aveva negato l'immortalità dell'anima.

P. tra gli evangelici toscani

Nel 1537 P. si stabilì a Colle Val d'Elsa (provincia di Siena), si sposò con Marietta Guidotti, da cui ebbe cinque figli, e insegnò come tutore privato. Nella cittadina senese P. creò un cerchio di allievi, con i quali si discuteva su scottanti argomenti dottrinali, al centro del dibattito fra Chiesa cattolica e Riforma, come il culto dei Santi, l'autorità della Chiesa di Roma, l'esistenza del purgatorio, il contrasto fra Sacre Scritture e Tradizione storica. Inoltre egli ebbe l'occasione, in questo periodo, di conoscere l'intellighenzia evangelica fiorentina, tra cui il letterato Pier Vettori (1499-1585), Bartolomeo Panchiatichi, Pier Francesco Riccio, Pietro Carnesecchi e Marcantonio Flaminio, e di quest'ultimo diventò fedele amico.

Oltre a ciò, Siena era terra d'origine di uno dei più famosi riformatori italiani, il vicario generale dell'ordine dei cappuccini, Bernardino Ochino, quindi fu purtroppo scontato, in seguito ad una campagna di propaganda denigratoria contro di lui, che P. fosse accusato d'eresia nel giugno 1542 (pochi mesi prima della fuga di Ochino in Svizzera) davanti all'arcivescovo di Siena, Francesco Bandini Piccolomini (arcivescovo: 1529-1588). P. uscì indenne dal procedimento a suo carico (fu assolto per insufficienza di prove), sia per l'intervento a lui favorevole del cardinale Jacopo Sadoleto, sia perché lo stesso arcivescovo Piccolomini non infierì, essendo segretamente favorevole alla riforma moderata della Chiesa, propugnata da Sadoleto e dal cardinale Gaspare Contarini.

In seguito a questa vicenda e alla citata fuga dell'Ochino, P. scrisse l'orazione Pro se ipso (composta nel 1543, ma pubblicata solo nel 1552), un'appassionante difesa della libertà di coscienza, di cultura e di discussione e della possibilità di poter attingere direttamente alle Sacre Scritture. Nel 1544 egli scese ancora più nettamente nel campo della Riforma, scrivendo una lettera (Servus Jesu Christi.) a Lutero, Melantone, Bucero e Calvino, di contenuti simili a quella scritta dieci anni prima ad Erasmo da Rotterdam, esortandoli, inoltre, di mettere da parte le divergenze teologiche, ma rimase profondamente deluso dall'apertura del Concilio di Trento il 13 dicembre 1545 senza la partecipazione dei teologi protestanti.

P. a Lucca

In ogni caso nel luglio 1546 P. decise di trasferirsi a Lucca, approfittando dell'ambiente più favorevole ai riformatori. Qui, per intercessione di Pier Vettori e sotto la protezione della potente famiglia Buonvisi, gli fu affidato un incarico ufficiale di professore di letteratura alla Scuola superiore di Lucca (un simile ruolo gli era stato precluso a Siena per la sua fama di eretico) e diventò anche precettore della famiglia Calandrini. Il periodo lucchese fu tra i più sereni e fecondi per il filosofo di Veroli, che scrisse varie orazioni ed ebbe contatti epistolari con riformatori italiani, come, ad esempio, Celio Secondo Curione.

Nella primavera 1555, P. tornò a Colle Val d'Elsa, proprio poco dopo la caduta della repubblica di Siena, conquistata da Cosimo I de' Medici (duca di Firenze: 1537-1569 e granduca di Toscana: 1569-1574). Qui scrisse un trattato in italiano, in due parti: Del governo della città (andata perduta) e Dell'economia o vero del governo della casa: un inno alla religiosità erasminiana e valdesiana, vissuta nell'intimo della famiglia.

P. a Milano

Tuttavia la visione della campagna devastata dalla guerra e l'esilio all'estero di tanti amici lucchesi riformati, a causa della repressione messa in atto da Papa Paolo IV (1555-1559), lo convinse ad emigrare a Milano nel 1556 per coprire la cattedra di studi umanitari. Nonostante che, anche qui a Milano, P. fosse inquisito per eresia nel febbraio 1560 (fu comunque assolto), nella città lombarda egli conobbe letterati, come il poeta Publio Francesco Spinola e finì la sua opera principale, intrisa di polemica antipapale e anticlericale, l'Actio in Pontifices Romanos, inviandola in Svizzera, presso il riformatore di Basilea Theodore Zwinger (1533-1588), per essere conservata. L'opera venne pubblicata, postuma, nel 1600 ad Heidelberg, in Germania.

Nel 1567 P. entrò nuovamente nel mirino dell'Inquisizione di Milano per le sue opere letterarie (soprattutto Pro se ipso): sebbene riuscisse a far sospendere, per motivi di salute, un ordine d'estradizione verso Roma, emesso il 9 agosto, e tentasse di chiedere una mediazione, fallita, da parte dell'imperatore Massimiliano II (1564-1578), fu infine costretto a recarsi a Roma nell'agosto 1568 per presentarsi davanti all'Inquisizione romana, in una città cupa, dominata dal rigore fanatico imposto da Papa Pio V (1566-1572).

La fine

Rinchiuso (letteralmente a marcire) nel carcere di Tor di Nona per ben due anni, si comportò coraggiosamente: non abiurò, si rifiutò di indossare l'infamante abitello (l'abito giallo degli eretici), anzi accusò, lui stesso, il papato e Pio V in persona, che presiedeva il tribunale. Il processo, ovviamente, si concluse, il 4 ottobre 1569, con la sua condanna come eretico impenitente.

Il 30 giugno 1570 fu fatto l'ultimo tentativo, non riuscito, di farlo abiurare: tre giorni dopo, il 3 luglio 1570, l'anziano umanista fu impiccato e arso sul rogo nella piazzetta a Ponte Sant'Angelo, nello stesso posto dove, tre anni prima, il 21 settembre 1567, era stato bruciato Pietro Carnesecchi.

Curiosità

A P. sono stati attribuiti i seguenti versi satirici (e purtroppo per lui profetici), indice dei momenti di terrore, derivati dalla severa azione anti-eretica di Pio V:

Quasi che fosse inverno,

brucia cristiani Pio siccome legna

per avvezzarsi al fuoco dell'inferno.